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Discorso di Annamaria Furlan segretaria generale Cisl, al Tempio di Adriano per la cerimonia di commemorazione per Giulio Pastore, fondatore della Cisl a cinquanta anni dalla sua scomparsa.
“Innanzitutto, consentitemi un sentito ringraziamento a tutti i graditi ospiti in sala per la loro presenza in questo momento per noi così importante.
In particolare ringrazio a nome di tutta la CISL il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ci ha voluto onorare di questa attenzione istituzionale, con la consueta sensibilità personale per quello che fa per il paese e per i lavoratori e per tutti gli uomini e le donne che vivono nel nostro paese.
Per la CISL, la ricorrenza dei cinquant’anni dal giorno in cui il fondatore Giulio Pastore ci ha lasciato non è un semplice momento rituale, ma l’occasione per riflettere sull’oggi attraverso il suo lascito e la straordinaria modernità che lo caratterizza, con riferimento ai valori etici e ai fini.
I primi s’irradiano dalla centralità della persona, dalla piena realizzazione dei suoi bisogni materiali, intellettuali, morali, nell’ordine individuale, familiare, sociale; dalla solidarietà e dalla giustizia sociale, condizioni per costruire un ideale di pace, che dettano il fine della missione della CISL.
Nei valori e poi nei fini confluisce la fruttuosa riflessione di Pastore sul personalismo, da Mounier a Marcel, e il confronto, quanto mai formativo, con Dossetti, Grandi, De Gasperi, Romani.
La strategia riformista della CISL, sin dall’origine nasce proprio da questa triangolazione: un grande rigore sui valori e sui fini; un’analisi del mondo che riconosce la grande distanza da quei valori e da quei fini; la necessità che la lungimiranza e l’efficacia della politica riformista riducano, sino ad annullarla, quella distanza.
Questa visione, rigorosa e pragmatica, parla ancora al nostro tempo denso di contraddizioni e d’ingiustizie sociali.
Pastore e l’Europa
Pastore posizionò da subito la Cisl nella prospettiva europeista, che rappresentava la condizione per realizzare gli scopi programmatici fondamentali per i quali è nata, definiti all’articolo due dello Statuto approvato nel 1951 (“Assicurare un migliore impiego delle forze produttrici ed una ripartizione più equa dei frutti della produzione tra i diversi elementi che vi concorrono.”).
“L’obiettivo fondamentale (…) della costruzione di un’Europa unita come presidio di pace nel mondo e di esistenza democratica e sviluppo dei popoli europei”, potrebbe essere una dichiarazione dei nostri giorni, tanto è vero che ritroviamo questo concetto in molti dei documenti e degli appelli, che ci hanno impegnato nei mesi precedenti le elezioni per il recente rinnovo delle Istituzioni europee.
Correva invece l’anno 1955 quando La CISL, condividendo le preoccupazioni per l’implosione del progetto europeo, aderì, convintamente, alle risoluzioni della Conferenza di Messina come risulta dal Documento finale votato dal Comitato Esecutivo Nazionale, che riporta la frase citata.
La Cisl appena nata scelse, in solitudine fra le grandi Rappresentanze sociali, di essere parte integrante di questo grandioso processo storico al punto da incorporare l’unità economica e politica dell’Europa nei suoi valori, nei suoi principi identitari e nella sua missione. A essa Pastore associò il deciso sostegno alla nascita di una Confederazione internazionale dei sindacati dei lavoratori, come documentato dal suo intervento alla camera in occasione della ratifica dei trattati di Roma (26 luglio 1957).
Non si trattava perciò di un ideale astratto, ma di un riferimento programmatico fondato sia sulla consapevolezza del ritardo dell’economia e della società italiana ereditata dal fascismo, sia sulla consapevolezza della necessità di scommettere su un grande progetto di sviluppo industriale del Paese, condizione necessaria per il passaggio alla modernità delle relazioni sociali.
Nella visione lungimirante di Giulio Pastore, di Mario Romani, della CISL l’Europa rappresentava quindi un necessario e vitale orizzonte economico, sociale, civile, politico e culturale, senza il quale non sarebbe stata possibile l’azione di sviluppo e di modernizzazione immaginata.
Nella polemica che oppose Pastore alla lettura liberista, e alla conseguente contestazione dei Trattati di Roma sostenuta dal PCI, emergeva nitidamente la scelta della CISL a favore di un’economia mista, che oggi definiremmo “economia sociale di mercato”, non costringibile nello schematismo riduttivo odierno, che riconduce tutto al “liberismo” o al “dirigismo”, ma piuttosto alla capacità di coniugare gli interessi economici, del benessere sociale, delle conquiste civili, dell’evoluzione culturale del lavoro e dell’emancipazione della persona.
Emerge perciò e con limpidezza nel pensiero originario della CISL, la relazione organica tra economia sociale di mercato e democrazia partecipativa.
Infatti, la corretta mediazione tra vincoli competitivi e istanze sociali richiede l’integrazione del principio di Rappresentanza politica generale con il principio di Rappresentanza sociale degli interessi organizzati, così da realizzare una corretta distribuzione di compiti e di responsabilità in ordine alle esigenze al progresso economico e al progresso civile.” (Mario Romani).
Ecco perché nei giorni segnati dal ritorno sulla scena del nazional sovranismo, con il suo corredo di confini, muri, appartenenze, monete nazionali e conflitti monetari e valutari, la CISL ha scelto l’Europeismo del lavoro, della solidarietà e delle politiche condivise, delle reti di protezione sociale, dello sviluppo, del protagonismo multilaterale nel contesto internazionale sempre più polarizzato.
Ora, come allora, il pensiero inclusivo di Pastore ispira la nostra passione, orienta il nostro impegno, legittima la nostra speranza.
Pastore e la cosiddetta “scelta industrialista”.
Nella visione di lungo periodo di Pastore, pragmatica e sistemica, c’è tutta l’essenza dell’approccio Cislino alla realtà.
Pastore e il gruppo di studiosi che contribuirono non si limitarono mai ai principi generali dei paradigmi di economia, società e democrazia; si spinsero molto più in profondità indicando, nell’ambito di quei principi, il modello di sviluppo di cui l’Italia, allora prevalentemente agricola e semianalfabeta, aveva bisogno nella ricostruzione post bellica.
Il futuro del lavoro e per il Paese sarebbe stato nello sviluppo manifatturiero, come poi confermò il boom economico degli anni cinquanta.
A quella prospettiva la Cisl orientò preventivamente la strategia, l’iniziativa contrattuale, la pressione politica, la formazione del gruppo dirigente e dei militanti al centro Studi di Firenze.
Ricordo l’elaborazione innovativa sulla crescita della produttività nelle imprese, sull’equa ripartizione dei guadagni di produttività, sulla negoziazione aziendale: un disegno che si sarebbe compiutamente realizzato quarant’anni dopo con l’accordo concertativo del luglio 1993.
In un’epoca come la nostra d’instabilità, di grandi trasformazioni incombenti e di frequente improvvisazione, quella compiuta capacità progettuale ha ancora molto da insegnarci.
L’idea che non si potesse progettare un’Italia industriale senza un modello di democrazia industriale che la sostenesse nel lungo periodo attraverso: il protagonismo del lavoro, il ruolo negoziale delle sue rappresentanze sindacali, la partecipazione equa e diretta del lavoro ai benefici dello sviluppo, ci dice ora come allora l’importanza di avere un’idea di Paese, della necessità di promuovere coesione e cooperazione anziché divisione, separazione, isolamento.
Anche nell’idea progettuale di Pastore non erano concepibili i due tempi: prima lo sviluppo, poi la partecipazione del lavoro. Per riuscire, un modello sistemico doveva nascere integrato e compiuto nell’impostazione, poi si sarebbe realizzato pragmaticamente in modo progressivo, iniziando dalle situazioni più avanzate, sino alla sua generalizzazione.
Nell’oggi, questa lezione straordinariamente attuale richiama i decisori pubblici alla responsabilità richiesta: dalla complessità della fase, dalle interrelazioni nazionali e globali che la caratterizzano, dagli evidenti ritardi che imprigionano le potenzialità italiane e dalle troppe povertà e ingiustizie che prosperano all’ombra del deprezzamento subito dal lavoro e dalle distanze crescenti tra generazioni, aree del paese e generi.
Le variabili che guidano il cambiamento tecnologico in atto e con esso la ridefinizione degli equilibri internazionali, non consentono investimenti timidi nell’innovazione e ricerca, nell’occupabilità delle persone e nella formazione, nella valorizzazione del lavoro e delle condizioni di sicurezza, nell’ammodernamento del nostro sistema infrastrutturale e nel ridisegno di un sistema fiscale più equo.
Occorre un progetto paese da condividere, definito nell’approdo e programmato nella realizzazione. Possiamo graduare lo sviluppo degli obiettivi, non la loro pianificazione!
Pastore e il mezzogiorno
Era il 1958 quando Pastore lasciò la CISL ed entrò nel secondo Governo Fanfani come Ministro senza portafoglio per il Mezzogiorno e per le aree depresse, con l’intento dichiarato di portare al governo quella cultura sociale, che attraverso l’azione della CISL, aveva iniziato a rimuovere la dicotomia fra Stato e società civile.
Era la sfida di un uomo che si buttava alle spalle un successo che sarebbe bastato a riempire degnissimamente una vita intera, per ricominciare un duro lavoro per applicare i principi a lui cari.
Pastore conosceva bene il mezzogiorno d’Italia e sapeva che occorreva uscire dal circuito tragico di emigrazione e rimesse degli emigrati, che agivano da ammortizzatore sociale per chi restava.
Era convinto della necessità di un intervento strutturale di lungo periodo che coinvolgesse la dimensione culturale, il protagonismo sociale, il decentramento di poteri e conseguentemente realizzò un piano d’intervento coordinato fra Ministero per il mezzogiorno e Ministero della Pubblica Istruzione senza precedenti, memore di quel programma straordinario di formazione per quadri sindacali, che aveva realizzato al Centro Studi di Firenze.
Quindi, sempre nell’ottica di una visione d’insieme e prospettica, promosse una forte spinta agli insediamenti industriali e alla buona amministrazione, ma allo stesso tempo anche un grande investimento culturale per creare il contesto favorevole ad una nuova stagione di diritti e di eguaglianza di opportunità, che soppiantassero il sistema di relazioni ancestrali radicatosi.
Lo sviluppo, ne era convinto Pastore e con lui un autorevole gruppo di studiosi che lo sostennero (Franco Archibugi, Vittorio Bachelet, Giuseppe De Rita, Gino Giugni, Giovanni Marongiu, Pasquale Saraceno, Paolo Sylos Labini, Enzo Scotti), si dispiega solamente se le persone e le istituzioni si percepiscono come protagoniste della sua realizzazione, come artefici del proprio destino.
Sandro Pertini lo ricordò così: “ Il figlio del lattoniere novarese, il manovale dodicenne, l’ex fattorino di banca (…). Con amore e trepidazione (..) con animo di vero Cristiano si accostò ai fratelli lavoratori del Meridione, si occupò delle loro questioni generali e particolari e spesso anche personali e visse una delle pagine più belle della sua esistenza. Le visite di Pastore al Sud potrebbero far scrivere un libro di aneddoti ricchi d’insegnamenti umani.“
Di pastore, anche rispetto alla questione meridionale, ci parla la straordinaria sensibilità umana e lo slancio generoso verso le future generazioni. Della sua straordinaria opera di leader sindacale prima e di uomo di Governo e delle Istituzioni poi, ci interpella ancora oggi l’immutata necessità che la orientava.
Il mezzogiorno d’Italia continua a rappresentare, pur nel mutato contesto interno e nel nuovo scenario geo-politico internazionale, un giacimento di opportunità e una potenziale leva di sviluppo non eludibile.
Il nostro futuro sarà in Europa o non sarà. Il futuro dell’Italia sarà per tutti, da sud a nord, o non sarà.
E l’impegno della CISL non è cambiato. Nella nostra agenda delle priorità, come abbiamo ripetuto anche recentemente all’attuale Governo, ci sono gli investimenti per il sud d’Italia che deve essere riagganciato strutturalmente al resto del paese per colmare un ritardo divenuto insopportabile.
La cittadinanza, per essere tale, deve offrire le medesime opportunità a tutti i nostri cittadini quando si rivolgono ai servizi pubblici e quando si spostano, deve garantire identiche speranze ai nostri ragazzi costretti troppo spesso a cercare futuro altrove a seconda di dove sono nati o, peggio, a diventare preda dell’economia informale dei poteri mafiosi.
In questo senso non esiste una questione meridionale perché, con tutta evidenza, si tratta di una questionale nazionale.
Pastore, la democrazia e il modello di sviluppo.
In conclusione di questa breve riflessione sull’immenso patrimonio d’idee, valori e opere di Pastore desidero richiamare due ultimi aspetti, inerenti il concetto di democrazia a lui molto caro e per la Cisl “costitutivo” e la questione relativa al modello di sviluppo.
La democrazia rappresentativa se non trova il suo radicamento popolare, se si riduce al voto pur importante, diventa sempre più vuota e formale perché non entra nella concretezza della vita delle persone.
Il lavoro in senso estensivo e i lavoratori che si organizzano in libera associazione sindacale colmano questa distanza partecipando alla vita pubblica, contrattando con le imprese, contribuendo con i Governi alla costruzione del bene comune e quindi entrando a pieno titolo nello Stato. Nell’assoluto rispetto dei ruoli costituzionali, la democrazia rappresentativa può così evolvere nella democrazia partecipativa saldando in un unicum le forze vitali del Paese.
Lo ammetto, non ho nessuna variante creativa da proporre a questa lungimirante visione la cui traduzione attualizzata è ampiamente articolata nei nostri documenti anche recenti.
E’ una sintesi culturale originale in perfetto pragmatismo cislino, nella quale confluiscono personalismo, dialogo stringente con la Dottrina sociale cattolica, confronto profondo con la tradizione sindacale anglosassone.
E, anche in questo caso, entra con straordinaria attualità nel dibattito in corso sui limiti della democrazia rappresentativa e sulle presunte alternative per superarli: dalla democrazia diretta alla democrazia populista.
La prima, poco più di un simulacro circoscritto alla consultazione di poche migliaia di persone e con procedure prive di sicurezza; la seconda, una riduzione della democrazia al rapporto carismatico, diretto ed esclusivo fra il leader, individuale o collettivo, e il popolo, esito di un processo di disintermediazione sociale che agisce attraverso semplificazioni e rappresentazioni verosimili originate dal termometro degli umori contingenti.
Il protagonismo virtuoso delle parti sociali ritorna periodicamente ad attrarre improprie attenzioni. Non può essere costretto in uno schematismo di legge alla quale, tuttavia, spetta il compito di rafforzarlo sostenendone le sintesi negoziali liberamente raggiunte. Questo vale per la rappresentanza, per la rappresentatività e per ogni questione attinente il lavoro. Pastore ci ricorda costantemente l’importanza del libero sindacato in riferimento al corretto funzionamento della democrazia, alla propria missione elettiva, alle aspettative dei lavoratori.
Resto fermamente convinta che la democrazia partecipativa, sia la forma di governo più prossima alla democrazia diretta nelle nostre società complesse e che si realizzi nella dialettica fra Rappresentanza politica e Rappresentanza sociale, ognuna nella propria autonomia e nel proprio ruolo specifico, come prevede l’art. 99 della Costituzione che istituisce il Cnel (non a caso in corso di soppressione). Sono altrettanto convinta che il bene comune possa scaturire soltanto da questa dialettica.
Infine, un richiamo specifico al modello di sviluppo anch’esso di stringente attualità.
L’attuale modello globale di economia e di società fondato sullo sfruttamento illimitato delle risorse naturali e finalizzato a massimizzare il valore per gli azionisti e la soddisfazione per i consumatori, mentre ambiente naturale e lavoro sono mezzi subordinati ai quali non si riconosce il rango dei fini, ha generato squilibri sociali e ambientali drammatici.
Su questi paradigmi la lezione di Pastore è chiara: responsabilità, sostenibilità, coesione, giustizia sociale sono condizioni storicamente concrete della piena espressione della persona, il fine al quale devono ordinarsi l’economia, la società, lo Stato.
Occorre perciò operare con la massima determinazione all’interno di due grandi coordinate strategiche: la prima è l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile; la seconda è la visione sistemica di “un’ecologia integrale “la quale ci ricorda che tutto in natura è interconnesso e che “lo stato di salute delle istituzioni comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana”, alla luce del principio del “bene comune” e della giustizia preventiva nei confronti delle generazioni future che ci ricorda costantemente Papa Francesco.
L’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, famigliari, lavorativi, urbani.
Ne consegue che se non ci può essere la politica dei due tempi già richiamata, non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale” e che il grido della terra ferita ed il grido dei poveri, degli emarginati, dei migranti e dell’iniquità sociale è lo stesso grido.
E’ trascorso mezzo secolo, ma l’universo di valori e dei fini di Pastore e della Cisl, unitamente al progetto di civiltà e di democrazia che ispirano, continuano ad essere un riferimento prezioso in questo nostro tempo travagliato, che richiede lungimiranza, cooperazione e coraggio innovativo per rendere concreta la centralità della persona e del lavoro.